Caratteristiche Geologiche e Paleontologiche del Territorio

di Alessandro Urbani

Nell’area della riserva statale del Litorale romano compresa tra Fiumicino, Palo, Castel Di Guido ed il Porto di Traiano osserviamo due paesaggi dalla morfologia diversificata. Se prendiamo come linea di confine l’autostrada Roma-Civitavecchia (A12) non possiamo non notare che ad Ovest dell’asse stradale il paesaggio è pressoché pianeggiante mentre ad Est è collinare. Questa differenza morfologica risente delle vicende geologiche avvenute tra la fine del Pliocene ed il Pleistocene.

Ad uno sguardo ravvicinato ci accorgiamo che il territorio inizialmente pianeggiante è in realtà formato da una serie di rilievi, non più alti di 8 m, intervallati da blande depressioni; si tratta di un insieme di cordoni dunari, più o meno paralleli, localmente detti “tumuleti”. La fascia dunare, che dalla costa si allarga verso l’interno per circa 2-4 km, costituisce l’area dove sono stati edificati i centri abitati di Fiumicino, Fregene e Focene. E’ costituita prevalentemente da sedimenti sabbiosi portati al mare dal fiume Tevere negli ultimi 2.000 anni e via via rielaborati dalle onde e dal vento.

Man mano che ci avviciniamo all’autostrada notiamo, a ridosso della fascia sabbiosa, un’area pianeggiante caratterizzata, da zone con quote prossime al livello del mare e, localmente, anche più basse. Anche il terreno cambia aspetto; i granuli di sabbia diventano sempre più fini e il sedimento si arricchisce in argilla, limo e torba. È quanto rimane, assieme ad una fitta rete di canali artificiali, di un antico sistema di laghi costieri noti con i nomi di bonifica delle Pagliete, di Maccarese e di Porto. Come vedremo più avanti questi laghi costieri rappresentano la fase di chiusura di una antico sistema lagunare. Le due aree esaminate formano l’ala Nord-Occidentale del delta tiberino, esteso per ben 180 kmq, e vengono rispettivamente chiamate piana deltizia inferiore e piana deltizia superiore. A cavallo dell’autostrada e della via Aurelia, assistiamo al passaggio tra la pianura e l’area collinare che si eleva fino a 75 m (s.l.m.) nella zona di Castel di Guido. I terreni che costituiscono questi rilievi testimoniano l’avvicendarsi di paesaggi più antichi di quello sopra descritto. Cerchiamo quindi di leggere attraverso le caratteristiche litologiche dei terreni affioranti il passato più remoto della riserva.

L’area della Riserva era occupata dal mare aperto

Poco meno di un milione di anni fa l’area della Riserva era occupata dal mare aperto. I terreni che testimoniano questo evento sono costituiti da argille (Argille di Cerveteri) e da sabbie calcaree di età pliocenica (da 3,40 a 1,79 Milioni di anni) affioranti a Nord di Palidoro (Fosso della Caldara) e nelle vicinanze di Palo. L’ambiente marino permane nel nostro territorio fino alla fine del Pleistocene inferiore (0,88 Ma). In questo lungo intervallo di tempo si hanno ripetute oscillazioni del livello del mare che determinano temporanee emersioni dei fondali marini. Le cause di queste variazioni vanno cercate sia in eventi che hanno interessato l’intero globo terrestre, come i cambiamenti dell’estensione delle calotte polari durante le epoche glaciali, sia a cause più regionali come il sollevamento della catena appenninica.

Alla fine del Pleistocene inferiore, il continuo sollevamento delle aree retrostanti l’attuale costa tirrenica produce un cambiamento del quadro paleogeografico; dall’iniziale ambiente marino profondo passiamo a condizioni epicontinentali che evolveranno ad ambienti emersi di tipo fluvio-palustre. L’area della Riserva che meglio conserva la testimonianza di questa serie di eventi si trova nei pressi di Ponte Galeria. I particolari rapporti geometrici tra le ghiaie, le sabbie e le argille affioranti in questa zona indicano che ci troviamo in prossimità di un articolato ambiente deltizio costruito da un fiume che veniva alimentato dalle acque e dai sedimenti dell’Appennino: il Paleotevere.

Con l’inizio dell’attività eruttiva

Il Paleotevere, a causa dei continui assestamenti del substrato sul quale scorreva, è soggetto a continue migrazioni che determineranno lo spostamento della sua foce dall’area di Ponte Galeria verso Sud. Intorno ai 600.000 anni fa, con l’inizio dell’attività eruttiva, a carattere prevalentemente esplosivo, dei vulcani Sabatini a nord-ovest e dei Colli Albani a Sud-Est il paesaggio subisce una radicale modifica: le depressioni vallive vengono colmate, i rilievi ammantati ed i corsi d’acqua deviati da una spessa coltre di tufi, ceneri, lapilli e pomici. La deposizione di chilometri cubi di materiale piroclastico produrrà uno degli effetti più importanti per il nostro territorio; il confinamento del tratto superiore del Paleotevere nel suo corso attuale.

Il livello del mare era più basso di quello attuale di circa 120 metri

Intorno ai 18.000 anni fa, alla fine dell’ultima glaciazione (Würm), il livello del mare era più basso di quello attuale di circa 120 metri e la linea di costa probabilmente doveva trovarsi a non meno di dieci chilometri dall’attuale. Numerosi indizi geologici fanno pensare che, in quel periodo, il corso del Tevere proseguisse in aree oggi invase dal mare, incassato in quella che gli studiosi chiamano Paleovalle Tiberina. Con la deglaciazione delle calotte polari e montane, conseguenti al ristabilirsi di condizioni climatiche più miti, il livello del mare comincia lentamente a salire e ad invadere di nuovo il nostro territorio e la Paleovalle Tiberina. La foce del Tevere, a causa di questo evento, subisce un forte arretramento.

Grazie a numerosi sondaggi possiamo ricostruire, nelle linee generali la paleogeografia della riserva; il Tevere con il suo apparato deltizio sfociava all’interno di un’ampia laguna divisa dal mare aperto da una serie di barriere costiere discontinue allungate parallelamente alla costa. Dalle colline retrostanti gli abitati di Focene e Fregene scendevano dei corsi d’acqua, tra i quali probabilmente il fiume Arrone, che deponevano i loro sedimenti all’interno della laguna contribuendo così al suo riempimento.

Intorno ai 7.000-5.000 anni fa il livello del mare termina la sua risalita; il fiume Tevere dopo essere ulteriormente arretrato (zona Centro di Mezzo) si posiziona definitivamente nel corso attuale e comincia ad avanzare dapprima all’interno della laguna, via via sempre meno profonda, poi in mare aperto fino a raggiungere, in epoca storica, l’attuale conformazione. Dell’antica laguna non rimarranno altro che una serie di laghi costieri oggi completamente bonificati.

Quando c’era l’elefante

In tutto questo evolversi di ambienti quali animali popolavano l’area e, soprattutto, quando compare l’uomo? Per abbozzare una risposta dobbiamo spostarci nei dintorni di Castel di Guido; le ricerche paleontologiche effettuate nell’area consentono di delineare le caratteristiche paleoambientali del territorio della Riserva nel Pleistocene medio-superiore.

Le associazioni faunistiche rinvenute nei terreni affioranti testimoniano un paesaggio caratterizzato da foreste o macchie boschive popolate di elefanti (Elephas antiquus), daini (Dama dama) e cervi (Cervus elephas). Nelle praterie adiacenti le aree boscate trovavano ospitalità il rinoceronte (Dicerorhinus haemitaechus) ed il bue (Bos primigenius). I corsi d’acqua che solcavano l’area formavano zone paludose abitate dall’ ippopotamo (Hippopotamus antiquus) e dal cinghiale (Sus scrofa). Il clima, considerata la presenza del daino e dell’ippopotamo (indicatori paleoclimatici), doveva essere di tipo temperato o temperato-caldo.

In questo contesto ambientale si inserisce l’uomo. La sua attività e presenza è documentata essenzialmente dalle industrie litiche rinvenute nell’area della riserva. Tali reperti, consentono di affermare che il territorio è stato frequentato dapprima dall’Homo erectus (area di Castel di Guido) poi dall’Homo sapiens neanderthalensis (area Maccarese-Fregene) ed infine dall’Homo sapiens sapiens (insediamento protostorico di Maccarese). Sin qui le testimonianze deducibili dalla lettura del territorio.

Un altro attore: il fiume Arrone

Abbiamo visto sinora che il protagonista dell’evoluzione del paesaggio della riserva è il fiume Tevere. A ben guardare però non possiamo non notare che nell’ area è presente un altro attore: il fiume Arrone.

Emissario del lago di Bracciano, il fiume Arrone dopo un percorso di circa 37 km sfocia nei pressi di Fregene. L’area di raccolta delle acque superficiali (bacino idrografico) è ampia, cosiderando il lago di Bracciano, poco più di 200 kmq. Il bacino idrografico ha un’altezza media di circa 98 m s.l.m. e presenta una forma allungata in direzione Nord-Sud; esso confina ad Est con il bacino del Fosso Galeria, affluente in destra del Fiume Tevere, e ad Ovest con i bacini del Rio Tre Denari e del Fosso delle Cadute, entrambi sfocianti in località Passo Oscuro e Marina di Palidoro. All’interno del bacino principale si osservano tre sottobacini primari; il primo relativo al fiume Arrone, il secondo al Fosso dei Prataroni ed il terzo al Rio Maggiore entrambi affluenti in destra del corso d’acqua principale. La confluenza dei tre corsi d’acqua avviene in corrispondenza della S.S. N°1 Aurelia. Arricchito dalle portate degli affluenti l’Arrone, dopo aver attraversato il territorio di Maccarese sfocia nel Mar Tirreno.

In base alle sue caratteristiche geologiche il bacino idrografico dell’Arrone può essere suddiviso in tre parti. La parte alta, posta immediatamente a Sud del Lago di Bracciano, presenta una morfologia collinare tipica dei rilievi vulcanici della nostra regione. In questa zona i terreni scavati dalle acque sono costituiti da colate piroclastiche (i tufi s.l.) e da livelli più friabili rappresentati da lapilli, cineriti e scorie vulcaniche. Nella parte centrale del bacino i tre corsi d’acqua sono riusciti a scavare delle incisioni vallive piuttosto profonde e a raggiungere i terreni sedimentari sottostanti i depositi vulcanici. Giunti alla zona di confluenza il paesaggio si allarga decisamente presentandosi pianeggiante e ricco di depositi alluvionali. A Sud della Via Aurelia il corso d’acqua percorre il suo tratto finale prima di raggiungere il mare. In questo tratto il fiume Arrone mostra le tracce dei numerosi interventi operati dall’uomo; il restringimento della sezione fluviale e la creazione di argini artificiali hanno eliminato gran parte degli originari ambienti ripariali e impediscono al fiume di avere una maggiore libertà di movimento.
Giunto all’altezza della Torre di Maccarese il fiume Arrone subisce una improvvisa deviazione verso Nord-Ovest. In questo tratto terminale il fiume riacquista parte della sua libertà e ci presenta uno degli spettacoli più interessanti che l’incontro tra un fiume, che deposita i suoi sedimenti, e la corrente marina, che tenta di portarli via, possano offrire; la creazione di un cordone sabbioso. Posto a difesa della foce del fiume questo accumulo sabbioso divide l’ambiente marino da quello fluviale. Un’aspetto da non dimenticare è che parte della sabbia che forma il cordone proviene dai sedimenti trasportati in mare dal fiume Tevere.

La foce del fiume Arrone conserva ancora un certo grado di naturalità e pertanto cambia, di anno in anno, aspetto a seconda dell’intensità delle mareggiate e delle piene offrendoci una morfologia costiera sempre nuova e diversificata.

L’Arrone ha rotto gli argini

Sebbene sia un “piccolo” corso d’acqua l’Arrone, meriterebbe maggior tutela e rispetto. Purtroppo lungo il suo corso osserviamo sconsiderate urbanizzazioni in aree di pertinenza fluviale e restringimenti dell’alveo che non fanno altro che aumentare il rischio da alluvione. I territori di Maccarese e Fregene ben conoscono questo fenomeno essendo protagonisti ogni anno di “catastrofi” che hanno poco di naturale. Al fine di non perdere la memoria storica dei processi che avvengono nell’area ricordiamo che più volte nel passato (14/11/1956, 15/2/1958 e 16/2/1976) l’Arrone ha rotto gli argini e riappropriandosi del suo territorio ha provocato ingenti danni.

È nostro auspicio che la neonata riserva oltre ad incoraggiare nuove ricerche volte a svelare la complessità del nostro territorio rappresenti l’occasione per una più oculata utilizzazione del suolo e stimolo per una pianificazione territoriale che sia rispettosa delle leggi che governano i sistemi naturali.

BIBLIOGRAFIA
Capasso B. L. & Petronio C., (1981) – La mammalofauna pleistocenica di Castel di Guido (Roma). Boll. Del Serv. Geol. D’It. Vol. CII – pp. 95-108
Bellotti P., Carboni M. G., Milli S., Tortora P. & Valeri P., (1989) – La piana deltizia del Fiume Tevere: analisi di facies e ipotesi evolutiva dall’ultimo low stand glaciale all’attuale. Giornale di Geologia, ser. 3, vol.51/1, pp. 71-91.
Di Loreto E., Giacopini L., Mantero D., Mantero M. F., “Il comprensorio Maccarese Castel di Guido” nella rivista Verde Ambiente, nov./dic. 1993
Faccenna C., Funicello R. & Marra F. (1995) – Inquadramento geologico strutturale dell’area romana. Mem. Des. della Carta Geol. d’It., vol. L pp. 31-47.
Huyzendveld Arnoldus A., Crovato C. & Zarlenga F. (1991) – Analisi paleoambientali dei depositi “intrawürmiani” ed Olocenici della piana di Maccarese. ENEA pp.3-29.

Su questo sito utilizziamo i Cookie secondo le finalità indicate nella nostra Cookie Policy. Prima di continuare ti chiediamo di fornirci il tuo consenso. MAGGIORI INFORMAZIONI

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi